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Ricordi d'infanzia (I parte)
tratto da "Il Guado dell'Antico Mulino" dicembre/2006
RICORDI D’INFANZIA di Dilvo Rigoni
Mi auguro che questa mia biografia, dei primi anni di vita, non si riveli troppo noiosa per chi avrà la bontà di leggerla; anzi, chi avrà la pazienza di arrivare fino alla fine e dovesse trovarsi in situazioni di salute critiche, spero possa trovare in essa motivo di speranza e d’incoraggiamento.
Ovviamente, per i primi tre anni, la ricostruzione riporterà quanto minuziosamente riferitomi da mia madre, mentre per il seguito saranno i miei personali ricordi a dettare il filo conduttore.
E’ incredibile la mente umana, la sua capacità di fissare nella memoria e rivedere all’infinito,
come la pellicola di un film, eventi, specie se dolorosi, tanto lontani nel tempo!
La scienza medica teorizza che la famigerata arteriosclerosi, malattia degenerativa delle cellule cerebrali, possa inibire i ricordi recenti ma non quelli significativi più remoti; in effetti, chi ne è purtroppo colpito, solitamente viene proiettato a rivivere le esperienze della giovinezza
.
Se credessi nella jella o nel malocchio, direi che sono stato una disgrazia per i miei genitori, fonte di preoccupazione ed ansia ancor prima di nascere; ma non lo credo affatto, ragione per cui mi limiterò a parlare di sfortunate casualità.
Quando mia madre si rese conto di essere incinta di me, fu presa dal panico e disse a mio padre: “Che cosa abbiamo fatto, Giovanni!? Mettere al mondo una creatura alla nostra età! ( lei aveva già 39 anni e mio padre 59). Chissà se avremo tempo per accudirlo e vederlo crescere, o se dovremo abbandonarlo ancora in giovane età, quando avrebbe più bisogno di noi?!”.
Evidentemente non ero stato cercato, ero frutto della prima casualità! Mio padre, al solito sereno ed ottimista e questa volta profetico, la rasserenò rispondendole pacatamente: “Non temere, Maria, sta’ tranquilla e vivi serenamente questa tua maternità: chissà che questo figlio in arrivo non sia un domani il bastone della nostra vecchiaia!”. Ma, mentre ero ancora nel grembo materno, ottenni anche un piccolo risultato positivo: il 2 Giugno 1946 si tennero le prime votazioni libere dopo l’era fascista e per la prima volta nella storia italiana votavano anche le donne, ragione per cui mia madre si recò al seggio e, per il suo evidente pancione e quindi per merito mio, fu fatta votare subito, risparmiandole la lunga fila in attesa.
E sul tardi di quella stessa notte venni al mondo io, ultimo di un fratello e quattro sorelle, la più giovane delle quali aveva già 6 anni. Non mi sono stati riferiti altri fatti di rilievo relativi al primo anno di vita, se non che i miei fratelli stravedevano per me, specialmente mio fratello Aldo, che non vedeva l’ora di tornare a casa dal lavoro nei campi per prendermi in braccio, coccolarmi e fare tanti progetti su di me.
Ma ebbe poco tempo per farlo, perché tre mesi dopo la mia nascita, ad appena 16 anni, morì di peritonite all’Ospedale di Sandrigo, dopo quattro giorni e quattro notti di urlante agonia, tanto che il Primario ogni mattina si stupiva della sua resistenza e si diceva sconsolato: “Ma non ha ancora finito di soffrire, questo povero ragazzo!?”.
Così mio padre perse il suo aiuto nel lavoro dei campi, per la disperazione incominciò ad ubriacarsi tutti i giorni (ora sono solito a dire che si è bevuta anche la mia parte di vino) e per tutta la sua vita non riuscì mai più a varcare la soglia di un ospedale, nemmeno per far visita a me negli anni seguenti.
Infatti, tutto il peso della mia futura odissea ricadde sulle spalle di mia madre: quando dovevo entrare in ospedale, alle cinque di mattina mio padre era già ubriaco fradicio e lo era ancora alle undici di sera, quando mia madre rincasava sola, perché non voleva vedere né sapere niente.
Mia madre, invece, per il dolore quasi perse la fede, benchè fino ad allora fosse stata in lei ben radicata e chiese al Parroco, Don Bortolo Castegnaro: “Perché, perché se c’è un Dio giusto, si è preso proprio mio figlio, che era tanto buono e devoto? Perché non si è preso uno dei tanti lazzaroni o delinquenti che ci sono in giro? Perché proprio Aldo, che voleva bene al prossimo, era amico e benvoluto da tutti e non ha mai fatto male ad una mosca?”
Per cercare di consolarla, il Parroco le rispose: “Maria, e chi ti assicura che si sarebbe sempre conservato così, buono, caritatevole e devoto com’era adesso? Chi può escludere che in futuro, magari a causa di cattive compagnie, non avrebbe potuto traviarsi? Almeno sai che dove si trova ora è nella gioia eterna e non gli potrà più accadere alcun male!”
Forse per merito di quelle parole o forse anche della mia esistenza, ma sempre con la morte nel cuore che non l’avrebbe mai più abbandonata, un po’ alla volta riprese a vivere, riversando in me anche tutto l’amore che nutriva per quel figlio che il destino le aveva tolto.
Purtroppo, la serenità era destinata a durare poco, perché l’anno dopo ebbe inizio il mio e suo calvario, in una sera d’inverno del 1947, quindi quando avevo appena un anno e mezzo di vita.
A quei tempi non esisteva la televisione e pochi in paese potevano permettersi la radio, ragione per cui l’unico passatempo nelle serate fredde consisteva nel radunarsi in una stalla per il cosiddetto “filò” e quella di mio padre era la stalla più grande ed adatta della contrada, dove si radunavano tutti i vicini.
Mentre gli uomini preparavano gli attrezzi agricoli per la stagione successiva o giocavano a carte, in compagnia dell’immancabile fiasco di vino, le donne stavano in disparte, cucendo o più spesso rammendando e chiaccherando fra loro, mentre i bambini, io compreso, giocavano a rincorrersi.
La stalla era divisa da un muro in due sezioni, la più grande per le mucche e l’altra per i vitelli.
La seconda sfortunata casualità che si verificò fu che proprio il giorno prima della fatidica sera mio padre aveva venduto un vitellino, quello che stava addossato al muro divisorio ed al suo posto aveva messo un mucchio di fieno, comodo per essere distribuito alle mucche la mattina successiva.
Così i ragazzi, tutti più grandi di me, giocavano alternandosi a saltare via, dalla sommità del mucchio di fieno, la canaletta di cemento per lo scolo del liquame nella concimaia.
Per spirito di emulazione, volli anch’io fare “il salto grande”, che purtroppo mi riuscì solo a metà, andando a sbattere con la tibia sinistra contro lo spigolo della canaletta.
Ovviamente, mi misi a piangere ed accorse mia madre, che mi massaggiò un po’ la gamba dolorante, mi coccolò dicendo che “la bua” mi sarebbe passata subito e la cosa per quella sera finì lì.
Ma nei giorni successivi continuai a lamentarmi, mostrando la gamba dolorante e la mamma notò che l’ematoma, comparsomi nel frattempo, aveva un che di strano, non era uguale a quello degli altri miei fratelli: era in rilievo e lucido, come se fosse stato spalmato di olio o grasso.
Allora mi portò dal dottore, che mi aspirò un’intera siringa di pus, causa del gonfiore, mi medicò e fasciò, raccomandando alla mamma di controllare la situazione ogni mattina.
Il giorno seguente il gonfiore si era riformato ed il dottore ripetè l’operazione, consigliando però questa volta di portarmi all’ospedale per le cure del caso.
Si riaprirono così le famigerate porte dell’Ospedale di Sandrigo, dove fui ricoverato in osservazione precauzionale, ma dove si limitarono ad asportarmi ogni mattina il pus che continuava a riformarsi.
Come non bastasse, finchè ero lì in degenza mi sono buscato la broncopolmonite ed ancora devo ritenermi fortunato, perché fin poco tempo prima di quella malattia si moriva, mentre io sono stato salvato da un nuovissimo farmaco, la penicellina, appena portato in Italia dagli Americani liberatori.
Così, tra una disgrazia e l’altra, passò inutilmente quasi un anno e niente era cambiato, finchè il Primario dell’ospedale, resosi conto che le sue cure non sortivano alcun effetto positivo, prese mia madre ed onestamente le disse: “Mi spiace molto, ma qui non siamo competenti nel caso di suo figlio. Perché non lo porta a far vedere al Professor Campiglio della clinica di Mezzaselva? Lui sì che è specialista! E’ un padreterno dell’ortopedia e tiene congressi in tutto il mondo, Americhe comprese.”A queste parole e senza un attimo di esitazione, la mamma mi portò a casa e la mattina dopo, accompagnati da Vincenzo, il più anziano dei miei futuri cognati, partimmo in treno alla volta di Vicenza, dove poi salimmo sulla corriera per Mezzaselva. Arrivati che fummo, trovammo una lunga fila prima di noi, in attesa del Professor Campiglio, che si presentò in tarda mattinata, in compagnia di uno splendido cane pastore tedesco.
Era un uomo di mezza età, alto e magro, dai capelli completamente bianchi ed irti sulla testa come spilli e dagli occhi spiritati, con l’aria di chi non aveva tutte le rotelle del cervello a posto e forse era vero: ed era comprensibile, perché alcuni anni dopo sono venuto a sapere che, durante la guerra, per ben tre volte l’avevano messo al muro per fucilarlo, sempre nello stesso posto (dove fece poi erigere un capitello con la Madonna): prima i partigiani, perché nella clinica curava i feriti tedeschi, poi i tedeschi perché curava i feriti partigiani ed infine ancora i partigiani per lo stesso motivo e se l’era sempre cavata per il provvidenziale arrivo degli antagonisti che lo liberavano.
A tutti i suoi candidati esecutori rispondeva invariabilmente: “Il mio dovere è di salvare vite umane, tutte, indipendentemente dalla loro nazionalitè e razza o credo”. Ritornando al racconto del primo contatto con il Professor Campiglio, di certo non fu incoraggiante, perché ancora non si decideva a ricevere e continuava ad andare avanti ed indietro con il cane per la sala d’attesa, mentre Vincenzo, che non aveva peli sulla lingua, cominciava a perdere la pazienza, finchè non lo fermò e gli chiese seccato: “Vero, Professore, non le sembra che sia ora di cominciare le visite? Qui rischiamo di perdere la corriera per il ritorno!”
E lui gli rispose gelido: “Prima governo il cane e poi sarò da voi” e così fece; ma, nonostante la brutta impressione del primo contatto, in seguito il Professore si rivelò persona di grande umanità e cuore.
Finalmente giunse il mio turno e, sempre secondo il resoconto di mia madre, al luminare bastò un’occhiata alla mia tibia per tirare una bestemmia e sentenziare: “Osteomielite! Se me l’aveste portato subito, questo bambino ora starebbe correndo per i campi ed invece adesso sarà già un miracolo se gli salviamo la gamba!” E mai parole si rivelarono più profetiche di queste! Poi spiegò, gelando il sangue nelle vene e le speranze dei miei cari, che l’ematoma, anziché affiorare normalmente in superficie, si era riversato in profondità, dando origine ad un virus che, dato il troppo tempo trascorso dal trauma, mi aveva già intaccato l’osso, vi si era insediato ed avrebbe continuato a corroderlo se non si fosse intervenuti subito con un trapianto.
Così restai in ospedale, fra pianti e grida, mentre mia madre ritornava a casa con la morte nel cuore. La mattina dopo cominciarono subito a prepararmi per l’intervento, programmato per il giorno successivo, perché non c’era tempo da perdere, se n’era già perso anche troppo!
A quei tempi, l’anestesia veniva praticata per via aerea, tramite un grosso batuffolo di cotone imbevuto di una massiccia dose di etere ed inserito in una mascherina di cuoio, poi calata sul viso, in modo tale che si fosse costretti ad inalare la micidiale sostanza, che lasciava infine per giorni postumi devastanti, prima fra tutti una gran sete e labbra screpolate. E per tre giorni non si poteva né mangiare né bere, perché dicevano che in caso contrario esisteva un forte pericolo di arresto cardiaco: unica concessione alla tortura era la spugnatura delle labbra con una garza umida che, se da una parte leniva le labbra, dall’altra acuiva ancor di più la smania di bere.
A fine intervento, il Professor Campiglio spiegò a mia madre in attesa che mi aveva ripulito l’osso, inserito nell’interruzione un segmento di osso di agnello ed ingessato fino al bacino: fra un paio di mesi mi avrebbe ridotto il gesso al ginocchio, ma per ora non restava che aspettare e pregare.
Non so esattamente per quanto rimasi ricoverato quella prima volta, so solo che dopo quattro mesi vi ritornai perché mi togliessero l’ingessatura e per la verifica dell’esito.
Che fu disastroso, perché il trapianto non aveva calcificato ed il virus era più vivo e vegeto che mai, tanto che nel frattempo aveva continuato la sua opera di corrosione.
Tutto da rifare, operazione da ripetere, con la differenza di un mese di pre-ricovero, per essere sottoposto a massicce somministrazioni di antibiotico, uova fresche (che ancor oggi mi fanno schifo solo a pensarci) vitamine e, soprattutto, tante iniezioni di calcio.
L’operazione venne ripetuta, trapiantando però questa volta l’osso prelevato da un defunto, ma il risultato alla fine non cambiò. Da questo momento in avanti cominciano ad affiorare i miei ricordi personali, nitidi come se i fatti fossero successi ieri e credo che me li porterò nella tomba. Pensate che fortuna ho avuto io! Ricordo che i miei figli erano sempre pieni di lividi e pacche nere per le cadute (ed io avevo il terrore che la storia si ripetesse), ma fortunatamente non hanno mai avuto conseguenze, mentre a me la prima caduta è costata sette anni di andirivieni all’ospedale.
Ed intanto il tempo passava ed io sempre ingessato e costretto in una carrozzina, mentre vedevo gli altri bambini correre e giocare: è questo uno dei più brutti ricordi della mia infanzia e chiedevo alla mamma: “Quando potrò correre anch’io? Mai, mai, io non guarirò mai!”
E lei mi rassicurava, non so quanto convinta: “Guarirai, sì, guarirai e potrai camminare e correre come tutti i bambini di questo mondo. Devi solo avere fede e pazienza e pregare tanto il Signore”.
Quando dovevo andare in ospedale, per una visita o un ricovero, prendevamo il treno alla stazione di San Pietro in Gu e scendevamo a Vicenza, per poi recarci alla stazione dei pullman e salire sull’unico mezzo che una volta al giorno portava a Mezzaselva.
In attesa della partenza, aspettavamo al bar della stazione e mia madre mi comperava il gelato “Pinguino”, il classico stecco di panna ricoperta di cioccolato: per lei niente, chè le spese erano già troppe e non c’era da scialare.
Fu qui che un giorno scoprii, sembra assurdo ma è vero, l’esistenza delle banane: una signora, seduta ad un tavolino di fronte a noi, sbucciò al suo bambino quel “coso oblungo”, che lui cominciò a sbocconcellare svogliatamente, quasi infastidito da quell’imposizione.
Evidentemente, io devo averlo guardato con occhi stralunati, perché la signora mi chiese se ne volevo un po’ e, al mio cenno affermativo con la testa, me ne porse circa la metà, compresa la buccia. E mi piacque talmente tanto la banana (che mi piace ancor oggi) che raschiai con i denti anche l’interno della buccia ed ho continuato a farlo anche da ragazzo.
Il viaggio in pullman era sempre il mio incubo: quando la corriera s’inerpicava su per il Costo, allora unica via che portava a Mezzaselva, tanto stretta ed impervia che il mezzo doveva fare più di una manovra avanti ed indietro per riuscire a superare i tornanti, capivo qual’era la destinazione e sempre mi prendeva un’agitazione incontrollabile, che mi faceva fiorire sulla guancia sinistra una macchia violacea, come una grossa prugna matura; tale apparizione si è ripetuta ancora da ragazzo, nei momenti di massima tensione nervosa e sono convinto che ancor oggi mi riaffiorerebbe, se non fosse che da tanti anni non mi trovo più in tale situazione.
All’arrivo sul piazzale della clinica, trovavo ad attendermi dottori ed infermieri che con le mani mi salutavano festanti dalle vetrate, perché ormai mi ritenevano di casa e per loro ero la scimmietta che li faceva divertire, forse non pensando che per me era un luogo di tortura.
Già, perché fin da bambino non avevo paura di nessuno ed avevo la lingua sciolta, forse ero anche simpatico, tanto che il personale, sia medico che infermieristico, nei momenti liberi veniva a svagarsi attorno al mio letto. Anche quando ci portavano a prendere il sole o nelle sere calde ci facevano vedere i filmini in terrazza, avevo sempre il letto pieno d’ospiti, che attendevano i miei commenti. Ricordo particolarmente con simpatia i Dottori Guarda, Rinaldi e Cremonese, quest’ultimo diventato poi a sua volta un famoso ortopedico, tra l’altro Primario per tanti anni a Cittadella.
Ritornando alla cronistoria, a circa cinque anni venne il momento della terza operazione, che consisteva nel prelievo di un frammento di osso dalla mia gamba sana, che doveva fare da ponte nella tibia interrotta sinistra. Con questo tipo d’intervento, il Prof. Campiglio riteneva che ci sarebbero state meno possibilità di rigetto e più facilità di calcificazione.
E questo fu deciso nel cuore dell’inverno e ricordo che in quell’occasione il pullman dovette fermarsi a metà strada, perché non ce la faceva più a salire a causa della neve caduta in nottata.
Così mia madre si avviò a piedi, con me ingessato in braccio e fummo fortunati, perché poco dopo passò un’auto nera, una delle poche allora in circolazione, che ci fece salire sul sedile posteriore. Più avanti, incontrammo un’altra signora con bambino in braccio ed il guidatore fece salire anche lei, sul sedile anteriore e, riavviatosi, le chiese dove fosse diretta. Lei rispose, mezzo in italiano e mezzo in dialetto: “Devo far vedere il mio bambino al Professor Campiglio. Ma
go ‘na fifa troja, parchè go sentio dire che l’è ‘na bestia”.
Non fu detto altro finchè, arrivati nel piazzale della clinica, il guidatore non aprì la portiera alla donna, dicendole: “Eccola arrivata, signora, e si ricordi che quella bestia sono io!” Quindi, altro mese pre-operatorio, con la solita dannatissima routine e poi l’intervento.
Erano i giorni della rivalità sportiva fra Coppi e Bartali, con l’Italia divisa in due per tifo ciclistico ed in sala operatoria, dopo avermi calato sul viso la solita mascherina imbevuta d’etere, per farmi parlare ed inspirarne di più, qualcuno mi chiedeva: “Per chi fai il tifo, chi ti piace di più, Coppi o Bartali?”.
E ricordo perfettamente questa frase, i cui due nomi finali, mentre ero in preda dell’anestesia, mi rimbombavano di continuo nel cervello, prima ovattati e poi via via sempre più forti, quasi me lo volessero spaccare, in un parossistico andirivieni come il gioco dell’elastico o della molla.
Anche questo fa parte dei miei peggiori ricordi, tanto che ancor oggi qualche volta mi capita, se in preda a febbre alta, di riprovarne la dolorosa sensazione in un incubo, che mi fa risvegliare di soprassalto, madido di sudore freddo.
Ancora qualche giorno di degenza e mi rimandarono a casa, ingessato fino all’inguine, per poi tornare dopo due mesi per la riduzione del gesso appena al di sotto del ginocchio ed altri due mesi dopo per la rimozione e la verifica dell’esito.
Passati i primi due mesi, cominciò a far caldo e con il caldo cominciò la tortura del prurito alla gamba dentro il gesso, con l’impossibilità di trovare sollievo. Vallo a spiegare ad un bambino che deve avere pazienza, quando spesso non ce l’hanno neache gi adulti!
Come Dio volle, arrivò il momento di rimuovere il mio strumento di tortura e l’intera pelle della gamba restò attaccata al cotone interno al gesso, come quella di un serpente che fa la muta stagionale.
Mi fecero le radiografie di controllo, che diedero il solito esito disastroso: niente da fare, non era successo niente, era tutto al punto di partenza, con la differenza che il perone, l’altro osso lungo della gamba, continuava a crescere normalmente e, non trovando la contrapposizione della tibia rotta, mi distorceva il piede verso l’interno e la caviglia verso l’esterno.
Nel comunicare a mia madre la brutta notizia, il Professore sconsolato disse che c’era un ultimo tentativo da fare, mai sperimentato prima: il trapianto d’osso prelevato da un consanguineo sano.
Se anche questo fosse fallito, avrebbe dovuto tagliare la gamba, perché sarebbe andata in cancrena. In attesa che venisse fissata la data dell’esperimento, mi reingessarono per rispedirmi a casa ed in questa occasione ebbi la conferma che il Professore era davvero un padreterno dell’ortopedia, perché, appena i dottori ebbero finito di applicarmi le bende gessate, capitò per caso (o per fortuna?) in sala gessi e gli bastò un’occhiata da lontano per gridare come un matto, rivolto agli artefici: “Disgraziati maledetti! Ne ha ancora poche di disgrazie quella povera gamba, che gliela volete rovinare del tutto? Ma come fate a non vedere che il gesso è troppo stretto e capire che asciugandosi lo imprigionerà come in una morsa? Togliete immediatamente quello schifo e rifate come Dio comanda, prima che vi cacci tutti a pedate nel sedere!”. E i malcapitati dottori eseguirono subito, senza accampare scuse ed in religioso silenzio. A casa, intanto passava il tempo, mai arrivava la convocazione ed i miei familiari erano tutti in angoscia, come comprensibilmente si verifica in attesa di un grave evento che deve venire ma non si sa quando.
Finalmente, sul finire dell’autunno, da Mezzaselva mandarono a chiamare me ed il donatore prescelto.