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Il Go’, alla metà del ‘900 (II puntata)


tratto da "Il Guado dell'Antico Mulino" Giugno 2006

IL GO’, ALLA META’ DEL ‘900 (Seconda puntata)

El Geatàro
Mi ricordo che d’estate, al giovedì, arrivava “el geatàro”; lo si sentiva da lontano che suonava la tromba a bocca: io correvo a prendere i soldi per comperare il gelato. Lui fermava il suo carretto nello spiazzo in zona “Bortolaso” e cominciava a confezionare e a distribuire gelati ai ragazzi. Quello più richiesto era da cinque lire, ma c’era anche chi si permetteva quello da dieci lire. Il carretto era composto da una moto Lambretta 125, prima serie, affiancata da un carrello appuntito nella parte anteriore come una barca e supportato da una terza ruota. Sopra il carrello apparivano due grossi coperchi conici cromati e sagomati con una impugnatura sferica alla sommità. Sotto ai coperchi c’erano due contenitori della pasta di gelato contornati da blocchi di ghiaccio per tenerla a bassa temperatura. Era un momento di gioia per chi poteva gustare il gelato e, una volta finito, si doveva attendere il giovedì successivo per gustarne un altro.

Bepi Ocia
Altro motivo di allegria era il passaggio, una volta tanto, del cosiddetto “verticale” trainato a piedi da un certo Bepi Ocia proveniente da Carmignano di Brenta. Si trattava di un grande organo musicale posto sopra ad apposito carretto con due grandi ruote di legno e due lunghe stanghe che suonava in automatico: cioè bastava scegliere una musica, far girare una manovella e il verticale cominciava a suonare. L’uomo che lo trainava, detto appunto Bepi Ocia, aveva l’aspetto di un extraterrestre più che di un uomo; faceva impressione il fatto che si sostituisse ad un cavallo oppure ad un asino per trainare quel popò di peso. Lui lo trainava con le braccia protése all’indietro e con il corpo ben inclinato in avanti, con nel volto le smorfie di sofferenza del duro lavoro. Aveva due occhi bianchi e strabici su un viso solcato da profonde rughe, abbronzato (o più probabilmente sporco) con barba incolta, pieno di sudore dalla fatica che faceva per il traino, pantaloni avvolti fin sotto il ginocchio, scalzo, vestito da zingaro, pateòn chiuso da un filo di ferro, un odore da tenere lontano anche i ladri. Il suo nome di battesimo era evidentemente Giuseppe, ma l’appellativo Ocia non so da che cosa derivasse: forse perché i suoi occhi guardavano in direzioni diverse l’una dall’altro o forse perché era solito a ripetere la parola OCIA al posto della classica OSTIA.

L’Ambasciatore
Altro personaggio in auge era l’Ambasciatore, un vecchio della stirpe di Bepi Ocia: barba lunga e bianca, capelli lunghi e incolti, volto rosso che faceva intendere che gli piaceva “alzare il gomito”, portava un cappello con una penna di un grosso volatile, vestito alla moda dei sìngani , scalzo che trainava un carrettino a mano. Cantava sempre la solita canzone che diceva così: E’ arrivato l’ambasciatore / con la piuma sul cappello / è arrivato l’ambasciatore / a cavallo di un cammello / ha portato una letterina / che ha scritto stamattina / dove scritto sta così / se mi dai un ninnì / ti darò tutto il cuor / è arrivato l’ambasciator. Noi ragazzi avevamo associato la parola ambasciatore a quel povero disperato; tant’ è vero che a scuola, quando il maestro ci parlava degli ambasciatori e del loro ruolo, noi restavamo allibiti e una volta gli abbiamo chiesto: Gli ambasciatori sono vestiti come zingari e vanno in giro col carretto? Immediata la risata del maestro che ci ha fatto capire la diversa realtà di quel malcapitato.

Moca
Moca girava a piedi scalzi, con un vestito sgualcito, pantaloni fin sotto al ginocchio, col pateòn legato da uno spago recuperato dalle balle di paglia, baschetto in testa. Non aveva una dimora fissa; mangiava qualche piatto di minestra offerta dalla pietà di qualche famiglia, dormiva nelle stalle in mezzo alle mucche. Ma ciò che incuriosiva noi bambini era il fatto che lo trovavi seduto lungo la strada a farsi delle punture nei muscoli delle braccia; ma con le siringhe di quei tempi, che oggi si usano per il bestiame. Incuriosiva proprio perché noi avevamo il terrore delle punture: addirittura quando passava per strada il dottore Alberton, a volte in bicicletta, a volte con la Fiat Giardinetta con carrozzeria in legno, noi cominciavamo a fuggire spaventati per il timore che venisse a farci le punture. Quindi il fatto di vedere quel malcapitato che si bucava con una disinvoltura unica, senza accennare alla minima smorfia, era alquanto curioso e insolito. Dopo anni ho capito che si iniettava morfina.