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La Famiglia DE BONI meglio conosciuta come “Bon”


tratto da "Il Guado dell'Antico Mulino" giugno/2007

LA FAMIGLIA DE BONI meglio conosciuta come “Bon” di Piersilvio Brotto

In questo breve scritto voglio ricordare e rendere omaggio a una famiglia che ha dato molto alla nostra comunità e che ora non figura più tra quelle del paese.
La prospettiva da cui parto nella mia rievocazione è quella di un bambino, allora, che viveva in campagna, a Calonega, e che ad ogni cambio di stagione vedeva arrivare nei propri campi arativi (erano tre “torne”) i trattori di De Boni, cioè dei fratelli “Bon” a fare i lavori agricoli, affidati a quelli che oggi vengono denominati ‘terzisti’. In autunno, alla vendemmia, i fratelli De Boni noleggiavano il loro torchio, in cambio delle ‘graspe’, a chi ne faceva richiesta. Non mancavano poi di omaggiare il cliente con una bottiglia di buona grappa.
A casa mia venivano, in particolare, ad arare e al volante di quei vecchi trattori, dei Ford blu, c’erano Giovanni, cioè ‘Joani’, o suo fratello Gino. Joani era più vecchio, smilzo, capelli bianchi, o brizzolati, camicia scura, forse nera, calzoni blu abbondantemente sporchi di ‘morcia’. Suo fratello Gino era più piccolo, un po’ tarchiato, forse grassoccio, faccia tonda e colorita. Arrivavano accompagnati da uno dei fratelli Facchinello di Via Biasiati (Tonin, Pierin, Mario , celibi), loro parenti, addetti a reggere il versoio, cioè il ‘varsoro’, per un’aratura fatta con mezzi lenti e un po’ antiquati, rispetto alla concorrenza, rappresentata allora dai fratelli Zanini, ma accurata, lineare, senza ’buse in meso’.
Il versoio incideva il terreno e rovesciava le zolle, mettendo sotto, a marcire e a fertilizzare, quello che prima era sopra, cioè le stoppie e il letame sparso, anche quello, con cura nel terreno sgomberato dal precedente raccolto. Il solco tracciato dal versoio divideva il campo in due zone nettamente diverse: da una parte il vecchio, lo sporco, dall’altra il nuovo, il pulito, le zolle color marrone fumanti al sole mattutino e in mezzo, a rincorrere quel mostro tecnologico che compiva il miracolo, i miei piedi bambini, nudi, a sentire, ad assaporare, l’umida terra resa liscia e amica dalla lama metallica del ‘varsoro’.
Per convocare i fratelli De Boni non c’era allora il telefono: di solito la mamma (il papà era già venuto a mancare) o il fratello andavano con la loro bicicletta, qualche giorno prima dell’importante evento e raggiungevano i fratelli “Bon” nella loro casa, in via Vecchietta Trevisana. Se non c’erano loro, c’era la sorella “Jejeta” a ricevere l’ambasceria, i genitori no, forse perché erano morti o anziani. Era strana questa famiglia, senza genitori! Chi preparava loro da mangiare? Chi pensava alla casa, ai fiori? si chiedeva il bambino a piedi scalzi sulla terra marrone (per lui la terra arata non poteva essere che di color marrone!). La loro casa era effettivamente piuttosto trascurata, intenti com’erano, i due fratelli, a servire i vari clienti.
Mentre loro aravano, o trebbiavano, un loro fratello, Monsignor Pietro De Boni, curava l’archivio della Cattedrale, della Curia Vescovile, della Diocesi: per alcuni era un compito importante, di responsabilità, tanto è vero che l’avevano fatto “monsignore”; altri si chiedevano perché anche lui non fosse andato in una parrocchia, a fare il prete in mezzo alla gente. Monsignor De Boni era una persona arguta, schiva, ricca di cultura, dotta, erudita, come la sua mansione richiedeva. Ricordo un suo contributo, breve ma efficace, scritto per la riedizione, nel 1981, delle “Memorie storiche” su San Pietro in Gu di Monsignor Castegnaro.
Nel suo breve saggio, Monsignor De Boni sostiene a pag. 8 e 9, con perizia e competenza , che il termine “Gu” deriva dal tedesco “Gute” e non da altri termini e che perciò sarebbe più giusto chiamare gli abitanti del paese “Gudensi” anziché Guadensi. Personalmente ho trovato convincenti le sue argomentazioni e “soffro” quando vengo a contatto con chi si attarda con spiegazioni fantasiose o inconsistenti.
Tornando al nostro Monsignore, era di piccola statura, ma piuttosto tondo e lo potevi osservare mentre avanzava ondeggiando al seguito del vescovo Zinato, quando questi faceva il suo ingresso in Cattedrale, seguito dai vari Canonici.
Pochi in paese parlavano dell’altro fratello, il più giovane, Don Amedeo, prete salesiano finito a Torino o da quelle parti. Ogni tanto si faceva vivo in parrocchia in modo fugace, ma il suo mondo era altrove. Lui aveva partecipato, giovanissimo, da simpatizzante partigiano, alle ultime fasi della lotta per la liberazione. Alla “La Voce dei Berici” affidò un giorno una interessante testimonianza della sua drammatica esperienza di ragazzo alle prese con i Tedeschi. Ricordo, di quell’articolo, forse contenuta nel titolo, questa frase:”davanti al soldato tedesco, io sparai al cielo”.
Ora Don Amedeo, nato il 18 agosto 1927, vive a Torino e la sua salute è precaria. Continua a scrivere articoli e poesie meravigliose che ogni tanto fa recapitare a dei cari amici in paese. I genitori, Joani, Gino, la Jijeta, Monsignor Piero sono sepolti nel nostro cimitero, mentre la loro casa, a lungo abbandonata, non è abitata da discendenti.
La famiglia De Boni, una tipica famiglia “gudense” non compare più all’anagrafe comunale, ma il suo ricordo va recuperato e conservato come parte del nostro patrimonio più caro.